sabato 28 dicembre 2019

Eritrea - Asmara e isole Dahlak

19 dicembre - giorno 1
Atterriamo a Asmara, ci sono 10 gradi dato che siamo a 2330 metri di altitudine. Nessuno guarda il telefono quando atterriamo, perché tanto non c’è campo. 

L’aeroporto ha grandi buchi dai quali si potrebbe entrare e uscire, la sicurezza è davvero quella che è...

Ci mettiamo in composte file assonnate per il controllo passaporti e non mi pare ci sia possibilità di comunicare a nessuno di essere atterrato. 

Al nastro bagagli ci sono due addetti che scaricano il nastro per terra se nessuno prende le valigie. Ci sono cumuli di valigie tutti intorno al nastro e non si riesce a camminare. 

Recuperiamo non senza qualche difficoltà i nostri zaini e, verso l’uscita, vediamo il “Duty free”, un ammasso di birra e wiskey, olio e pasta. 
Compriamo due casse di birra e poi hotel. Ovviamente qui il Wi-Fi non funziona, ma in teoria ci sarebbe. 
Magri domattina riuscirò a dare un segno di vita a qualcuno. 

Giorno 2 - 20 dicembre 

Vengo svegliato poco prima della sveglia da dei fischi e degli schiamazzi. 
Guardo fuori dalla finestra e vedo centinaia di bambini, perfettamente schierati, alcune maestre davanti a loro, una maestra ha un fischietto e a ogni fischio si muove danzando, con tutti i bambini che seguono i suoi movimenti.  

L’hotel è immenso, curato anche se ormai decadente, mi chiedo per cosa fosse stato costruito e mi incazzo con la mia ignoranza. Colazione con pane buono, un uovo strapazzato con qualcosa di piccante, una specie di cappuccino non male e un succo d’ananas squisito. Richiedo per il Wi-Fi ma anche oggi pare funzioni domani. 
Mentre aspetto gli altri nella hall prima di partire mi accorgo che siamo probabilmente gli unici quattro ospiti e che - in compenso - ci sono almeno 8 persone a lavorare in hotel. Tre signore puliscono tutto quello che si muove e spostano oggetti così spesso da rimetterli esattamente dov’erano prima che li toccassero, una alla reception attende che arrivi il manager, due ragazze servono ai tavoli, il manager stesso e un cuoco/cuoca completano quelli che io solo son riuscito a vedere. 

Contrattiamo i viveri incontrando Elsa, signora che parla un italiano perfetto; nostro referente qui e poi andiamo a fare due passi per Asmara. 
La cattedrale, il teatro, il cinema con centinaia di bambini che impegnati in canti stonati provavano la recita di Natale e poi si parte. 
Cerco di diventare amico con Jhon, il nostro autista, che parla un discreto inglese, sono già le 13.30 e partiamo su un furgone scassato e carico di: patate, carote, uova, cipolle, riso, farina per fare una specie di pane, acqua (purtroppo in bottiglie di plastica), bombole del gas per cucinare. 

Partiamo dopo aver compilato i permessi per le isole, passiamo nella stazione dei bus a prendere il permesso per la macchina e ci servirà quello per la barca. Serve il permesso per tutto. 
Il nostro coordinatore é rimasto mezzo sordo dopo un incidente in Namibia e ha una malattia neuro degenerativa per la quale zoppica vistosamente. 
Jhon é un ottimo autista e conosce un sacco di gente che lo saluta sorridente. Come ogni volta in un paese povero mi stupisco di quanto sorrida molto di più la gente che ha poco rispetto a noi. 
Appena fuori dalla città guidiamo in una foresta di cactus per chilometri e si inizia a scorgere la spazzatura ai lati della strada (ben asfaltata) rispetto a una Asmara molto più pulita di quanto mi aspettassi. 

La foresta di cactus sfocia in una discesa che potrebbe essere una strada delle nostre montagne, eppure ne é l’opposto. Con l’aria fresca che entra dai finestrini, lo spuntare di case qua e là in posti che non diresti e una stupefacente quantità di bar a bordo strada. É tutto molto ocra, interrotto dal verde giallo dei cactus, incontriamo capre e capre e capre, quando incrociamo i villaggi aumentano i vitelli e gli asini e nei posti più sperduti scimmie dal sedere rosso acceso. 

Attraversiamo villaggi che non so di cosa posano vivere, una bambina a bordo strada ci guarda e i miei pensieri rimbalzano tra “che futuro può avere questa gente” e “e il mio”?
Ho tutti i confort, viaggio, non mi manca nulla, ma alla fine? Ecco, alla fine non so. 

Ci fermiamo a mangiare a Ghinda, in un posto dove ci portano un enorme piatto con un soffice pane largo quanto il piatto e della capra a pezzi con pomodoro e chissà che, molto gustoso e un po’ piccante dove mi stupiscono portando acqua dentro una bottiglia di vetro. 

Proseguiamo mentre il paesaggio cambia in continuazione e l’afa inizia a entrare dai finestrini, nonostante il nostro togliere le maglie e aprire i suddetti finestrini. Ci fermiamo velocemente a un monumento ai caduti italiani a Dogali, città che prende il nome da un (ingegnere? Soldato?) italiano che ha costruito un ponte costruito da piemontesi dove ancora capeggia una scritta che mi ha fatto sorridere “ca custa lun ca custa”. 

L’essere totalmente al di fuori dal mondo normale mi da una sensazione strana, che per ora non ho ancora assimilato appieno. Ho grande contrasto tra la pace dell’assenza di email e chiamate e la voglia di prendere e scrivere a chi penso, comunicare come sto e - perché no - tirarmela un po’ per il viaggio abbastanza unico che sto facendo. 

Arrivati a Massawa troviamo una quantità di gente inaspettata, molti giovani ben vestiti. C’è un palco in un campo di fonte al nostro hotel e c’è una discreta calca. 
Non senza qualche problema di comunicazione ci organizziamo e andiamo in un magazzino poco lontano a scaricare i viveri. Domani arriverà una barca a prenderci. La fatica di scaricare a caricare non è banale, i pacchi e le bombole sono pesanti e i miei compagni di viaggio non sono esattamente pronti a aiutare. 

Mi faccio una doccia con acqua dolce e guardo uno specchio per l’ultima volta fino al 25 sera... quanto appariamo, quanto ci mostriamo - anche solo a noi stessi. Mi rado la testa, mentre cerco di abituarmi ancora a questo tizio la cui barba torna solo ora ad accennarsi e - con questo taglio - a essere leggente superiore ai quattro capelli rimasti in testa. 
Torno a specchiarmi, non mi piaccio molto in questi giorni, saranno le occhiaie, la barba o che so io e penso che non mi guarderò per un tempo lunghissimo, forse non sono mai stato cinque giorni senza specchiarmi... 
mi perdo nelle immagine allo specchio, dalle mie a quelle degli altri e al pensiero dell’estetica imperante, che mi colpisce forte e mi schiavizza a tratti. 

Ceniamo in un posto surreale, dove il menu dice pesce alla griglia e pane piatto tipo chapati al forno - cosa volete? Beh, quello! Siamo letteralmente circondati da decine e decine di gatti e qualche cane. 
Arriva prima il pane con una piccola salsa e lo divoriamo, il pesce ci fa attendere ma è una vera delizia, nella sua semplicità, faccio un paio di foto al locale e tutti molto stanchi dalla levataccia di due giorni fa e dal cambio di altitudine torniamo presto in hotel. 

Torniamo nel buio della città vecchia di Massawa che è incredibile per la sua vecchiaia e austerità. É tutti poverissimo, vecchissimo, con i bimbi che corrono al buio, non una macchina, non un rumore, case antiche stile arabo e case antiche stile italico anni 20, antiche e fatiscenti nel loro fascino. 

Giorno 3 - 21 dicembre

Ci svegliamo pronti a partire. Inizio ad avere i primi sentori dell’Africa e del suo cibo. Impacchettiamo e poi dobbiamo capire con che barca andare. 

Viaggiamo in barca in mezzo al nulla per parecchio tempo, in lontananza si vedono onde che sembrano enormi e maestose, ma che - all’arrivo vicino alla nostra barca - diventano innocue. Ci fanno compagnia un paio di banchi di delfini in lontananza mentre la confidenza del gruppo inizia a crescere e partono le prese in giro. 

Il nostro capitano è Daniel e insieme a lui ci sono l’aiutante Rasheed e Proemi, anziana signora che credo ci darà una mano a cucinare. 
Ormai sono di fatto diventato il coordinatore, tutti fanno riferimento a me, causa la zoppia e qualche problema di stomaco di Marco, che è oltretutto anche un po’ sordo e ha una comprensione dell’inglese inferiore alla mia. Prima di partire ho controllato io che ci fossero tutti i viveri, ho sbrigato io le varie pratiche in hotel, con Giovanni che fa da cassiere. 
Rifletto sul carisma, sulla leadership, due cose che non credo mai di avere al cospetto dei carismatici e che invece escono così prepotenti soprattutto nei viaggi e nei momenti più difficili. Un po’ me ne dispiaccio, non vorrei che fosse scambiato per protagonismo, non vorrei che Marco se ne volesse, ma non mi pare sia il tipo.  

Arriviamo sull’isola di Dahret, completamente deserta, qualche uccello, qualche mosca e qualche lucertola, nient’altro. Non una palma, non un cespuglio, qualche arbusto, qualche fiore giallo indecifrabile e sabbia sabbia sabbia finissima e coralli. Attracchiamo e scarichiamo, montiamo subito una grossa veranda e un gazebo, la veranda “sociale” e il gazebo in fretta attrezzato a cucina. Proemi è la cuoca e subito - prima ancora di montare le tende per dormire - si mette a cucinare qualcosa. In poco siamo madidi di sudore, i local ci dicono che non vogliono una mano, ma in realtà mi ringraziano a ogni aiuto, soprattutto con l’acqua, in grossi barili da 20 litri. 

I ragazzi di Brescia sono organizzatissimi, hanno la qualunque, dalla maglietta solare alle ciabatte da scogli alla busta per proteggere la crema solare. 

Una volta che è tutto pronto mettiamo i materassini nelle tende e mentre gli altri sistemano tutta la valigia nelle tende (chissà perché) inizio a leggere mentre ascolto la musica e leggo alcune frasi meravigliose “non c’è abbastanza gentilezza al mondo” è una frase a pagina 50 subito segnata nella controcopertina. 

Il programma è andare a pescare - o per lo meno provarci - e poi fare snorkeling mentre Rasheed e Daniel pescano. 

Usciamo in barca, la temperatura é perfetta. Prendono un paio di pesci che però scappano prima di essere tirati su. 
Incontriamo diversi delfini a pochi metri da noi. Non li avevo mai visti così vicini. 

Ci fermiamo a fare snorkeling in un posto carino e ricco di pesci, ma i nostri compagni di viaggio non riescono a tirare su niente. Rashid si tuffa con maschera e boccaglio, prende una conchiglia splendida, maestosa, la porta in barca e la spaccano con delle pinze per prendere il contenuto e usarlo come esca. 

Alle 17.40 il sole sta tramontando dietro alle nubi che ci negano lo spettacolo. Stiamo tornando a riva mentre scrivo, è il 21 di dicembre e sono in costume e maglietta. 

Torniamo senza pesci. Mi cambio e mi lavo. Proprio mentre provo la strana sensazione dell’inutilità del lavarsi con l’acqua salata decido di aprire una birra e scolarla lento, con Savoretti che canta “nobody knows and nobody cares weather you lived or loved in vain”, la birra scende fresca, mentre si alza un vento più forte di quello che potessi immaginare e mi godo la luce del crepuscolo, da sempre mio momento preferito della giornata. 

Mentre aspettiamo cena e il vento mi da qualche piccolo brivido mi allontano leggermente e mi fermo a ammirare le stelle. I piedi ben fissi nella sabbia, guardo un cielo nero con piccole brillanti stelle, le guardo come se dovessero cadere da un momento all’altro e invece stanno lì, fisse, mi guardano e ho un pensiero buffo e stupido, penso al re leone e al mondo in generale, penso a quanto siamo insignificanti e inutili. Ognuno dei nostri amori, qualsiasi nostra sofferenza, tutti i nostri affetti, sono tutti insignificanti per la vita dell’umanità, così come l’umanità lo è per il mondo.  

Mangiamo pasta col tonno che mi sorprende per la bontà e per la cottura e dopo aver chiacchierato un po’ vado a lavarmi le mani in acqua e il cielo è ulteriormente migliorato... sembra che la mente mi sia stata tolta e sostituita da stelle, non c’è nient’altro, l’acqua irrealmente calda che mi sfiora i piedi e tanti puntini brillanti che mi entrano in testa. 

Rientro nella tenda sociale - ore 19.45 e praticamente la serata è finita. Ci vengono ancora a portare un tè e leggiamo una guida sulle Dahlak, unica guida in circolazione che il nostro coordinatore ha trovato non senza fatica.  
Sparecchiamo, chiudiamo la tenda grande  e decidiamo di avventurarci verso sud a vedere se c’è il plancton. 

Appena esco mi blocco, spengo la torcia in testa e torno a guardare il cielo. Mi blocco a braccia spalancate, godo di questo momento quasi provocando il mondo, provocando le stelle e nello stesso tempo assorbendo il loro potere. Ognuno dovrebbe vedere - per legge - un cielo così, un cielo così ti costringe a capire, ti obbliga a mettere da parte anche il rumore delle onde e ricordarti chi sei. 

Mentre Marco scrive la relazione sul viaggio Giovanni, Paolo ed io camminiamo a lungo guidati solo dalle nostre torce, attenti a non calpestare i coralli morti a terra. Arriviamo molto a sud, dove svegliamo decine di uccelli che urlano e volano via alzandosi tra i cespugli a pochi metri da noi. Decidiamo di non proseguire oltre, riguardiamo ancora le stelle, ci raccontiamo alcune storie di viaggio e facciamo arrivare le 21.00. Ora in cui andiamo a dormire. 

Giorno 4 - 22 dicembre 

Apro gli occhi dopo aver dormito a tratti. Nella notte mi son svegliato alcune volte, una per prendere a calci Marco che russava, una convinto che l’acqua stesse entrando nella tenda e una di scatto, dando un pugno nella sabbia a fianco il materassino. In uno di questi momenti ho guardato fuori e uno spicchio di luna bassa, che ricorda i minareti delle tante moschee viste fino qui. 

Apro gli occhi, dicevo, e il sole sta sorgendo proprio davanti a me, separato solo dalla zanzariera. L’alba, che non sarebbe stata visibile per la foschia, é passata da una mezz’ora circa e il sole sale piano. Quanto devi essere geniale, quanto è fuori dagli schemi, quante domande devi farti per arrivare a dire che il sole è fermo e noi muoviamo? 

Dopo colazione leggo un po’ e il libro mi dice “certe donne sono così, certi amori sono così. Il tuo cuore diventa come una scialuppa troppo carica. Per tenerla a galla cominci a gettare l’orgoglio, poi la dignità e l’indipendenza. Dopo qualche tempo cominci a gettare le persone, gli amici, i conoscenti. Ma ancora non basta. La scialuppa continua a sprofondare, e sai che ti trascinerà con se.”

Saliamo sulla barca con l’alta marea e Marco ha molte difficoltà dato che la gamba non lo regge. Dopo alcuni tentativi riusciamo a tirarlo su e partiamo per Durghella e Drugam. 

Arriviamo e mentre Daniel pesca noi ci tuffiamo. L’isola è stretta e lunga, con la costa rocciosa parzialmente mangiata dal mare e un’infinità di volatili che attendono. Giriamo quasi un’ora in acqua tra banchi di pesci enormi, un piccolo barracuda e migliaia di pesci a cui non so dar nome. 
Tornati sulla barca Daniel e Rasheed hanno pescato una grossa cernia per ciascuno di noi. Giriamo dall’altra parte e c’è una piccola spiaggia sulla quale attracchiamo, facciamo due passi per l’isola - ovviamente deserta - che è molto diversa dalla “nostra”, ci sono arbusti, ci sono molti cespugli e erba, troviamo anche un fungo, chiedendoci come sia possibile. 

La cosa più assurda di questi due giorni è la solitudine. Certo, siamo su delle isole disabitate, certo, pochi turisti le scelgono come destinazione, ma non abbiamo mai neppure incrociato un’altra barca, mai abbiamo potuto anche solo salutare qualcuno che non sia noi. Fortunatamente i ragazzi sono piacevoli e la convivenza procede bene.  Mentre penso al non aver visto un’altra anima viva ecco che mi si apre uno spettacolo schifoso. Al centro dell’isola ci sono resti di bottiglie di plastica e altri rifiuti. Non saprei dire di quanto tempo fa siano. 

Torniamo alla barca a mangiare e scopriamo che Rasheed ha caricato qualche ramo secco per fare il pesce alla brace. Mangiamo frutta e pane e ci dirigiamo verso la vicina Drugam. 

Ci tuffiamo per un altro snorkeling rapido e mentre procedo lento vedo un pesce che sembra molto grande, mentre mi avvicino mi si fa incontro e mi passa a pochi metri, non é un pesce, è una tartaruga che scappa via veloce. Cerco di comunicarlo agli altri, che però non mi ascoltano, così vado a chiamare Paolo e insieme andiamo verso il drop-off nella vana speranza di rivederla. Facciamo poche pinnate è eccola, ferma sul fondale a circa cinque metri da noi, circondata di pesci, rimane in attesa alcuni minuti e poi parte rapidissima inabissandosi chissà dove. 

Risaliamo in barca e rientriamo verso “casa”, dopo un’ora di navigazione intravediamo all’orizzonte le tende verdi e arancione. Arriviamo verso le 15.00, penso a che fare, l’idea è di prendere la saponetta e andare in una zona più appartata dell’isola a lavarmi, ma forse è ancora presto. 
Gli altri partono per una passeggiata e io decido di provare a meditare un po’ a bordo mare. La mente continua a essere rapita da varie e disparate cose e dopo un tempo che non saprei definire apro gli occhi che - a giudicare dal sole - saranno le 16.30 circa. 
Vengo rapito a lungo dalla processione dei paguri che camminano lenti verso l’entroterra, ce ne sono di tutte le dimensioni e non appena mi muovo si bloccano diventano solo un’altra conchiglia sulla spiaggia, ne seguo due in particolare, il più grande e il più scuro, li seguo a lungo nel loro trotterellare lento, nel loro causale zampettare con altri loro simili che procedono in direzione opposta per poi rapidi fermarsi all’arrivo di uno dei tanti uccelli che dominano questa isola (così come tutte le Dahlak). 
Dopo aver pensato che la spiaggia potrebbe prestarsi per una corsa decido di andare a cercare un luogo adatto a diventare il bagno e lavarmi. Nel cammino incontro un gregge di paguri che praticamente mi sbarrano la strada, li attraverso facendo attenzione a non calpestarli - sia per loro che per me - e arrivo in un punto sufficientemente lontano, mi spoglio e mi getto in acqua per lavarmi. Lavarsi con l’acqua salata non è di per se orribile, la merda è sciacquarsi con l’acqua salata, soprattutto per me che dopo un bagno solitamente mi lavo via il sale. Torno vestito solo dell’asciugamano e la sensazione è la stessa di prima, sento il sale tirare. 

Mentre aspettiamo la cena iniziamo a parlare della vita, iniziamo a parlare del tempo, del lavoro, di come tutti e quattro al tavolo predichiamo bene il godersi la vita e non farsi mangiare dal lavoro, ma poi razzoliamo chi male, chi malissimo. Eppure siamo qui, a goderci il fare nulla in isole sperdute dell’Eritrea, dove non esistono i telefoni e dove - mentre scrivo - la luce meravigliosa del crepuscolo s’infrange nel rumore del mare e ci preannuncia la fine di un’altra giornata, nei colori vivi delle nostre tende. 

Leggo fino a che il crepuscolo me lo permette, mentre il buio rende più luminosa la fioca luce della lampada appesa e “scivola il sole a violentare altre notti”. 

Arriva cena, mentre discutiamo di cibo e musica arrivano le cernie pescate oggi precedute da un orribile risotto knorr!! che era nella nostra cassa viveri. Probabilmente (e giustamente) ci sono arrivati pochissimi pezzi di pesce rispetto a quelli pescati e allora abbiamo mangiato un formaggio portato da non so chi, con pane e miele, fino a essere troppo sazi anche solo per parlare. 
Sono le 20.15 mentre sto scrivendo, cena è stata sparecchiata e - a parte la musica che benedico di aver portato - non c’è altro rumore se non il mare calmo. 

Giorno 5 - 23 dicembre 

Purtroppo l’orizzonte ha troppa foschia per farci godere l’alba, ma la luce prima dell’alba con la luna a spicchio basso mi incantano fin che il sonno non mi rivince.  

Ci svegliano - come sveglia finale - quattro gocce di pioggia pesante, che subito cessa tornando nel niente come dal niente è arrivata. 

 “Ci scommetto che nevica, tra due giorni è Natale, ci scommetto dal freddo che fa.”

Mangiamo colazione aprendo la nutella che era nel nostro pacco viveri, mi sporco in modo importante e faccio un gesto così naturale per i nostri compagni di viaggio e così poco per noi, mi strofino le mani nella sabbia e mi pulisco così. 

Mentre i miei compagni ci mettono - come sempre - infiniti minuti a prepararsi mi leggo un po’ del libro mentre scopro che il mio carica batterie solare doveva prima essere attaccato alla corrente. Ho 36% di batteria e non carico il telefono da oltre 48 ore, in Italia, in una giornata normale, sarebbero 4 o 5 ore di utilizzo. Uso il telefono solo per fotografare e scrivere. Nessuno può comunicarmi nulla e mi viene un filo di preoccupazione a pensare che possa succedere qualcosa e che io non lo venga a sapere, ma - in fondo - non credo possano esserci cose per le quali potrei cambiarne il corso. 

Partiamo per un’isola poco distante, uno delle cinque abitate. Quando siamo a metà strada penso di non aver portato biro e quaderni con me e mi maledico. 
Arriviamo accolti da alcuni bambini urlanti che ci danno la mano, Daniel rimane sulla barca mentre noi camminiamo sotto il sole cocente. Le donne sono bellissime, avvolte in lunghi abiti dai colori sgargianti e il capo coperto. 
Mandiamo un ragazzo in motocicletta a comprarci dell’olio e proseguiamo tra lamiere e pezzi di legno nel villaggio. Daniel ci spiega che non potrà venire con noi perché l’acqua é bassa e sta arrivando la bassa marea e quindi deve controllare che la barca non si incagli. 
Diamo 50 nafka a un ragazzo su una moto in cambio di una bottiglia d’olio che la cuoca ci ha chiesto. Mi dicono che l’olio ne costi 40, in cuor mio credo non costi più di di 10, ma gli dico di tenere il resto. 

Faccio in tempo a chiedere a Daniel di cosa viva questo villaggio e la gente del posto fa in tempo a chiedergli medicine (i più anziani) e biro (i bambini). 
Questo villaggio pesca e stop. Una volta preso il pesce navigano fino allo Yemen a vendere il pesce (che viene pagato meglio) in cambio di farina o pasta o mais. Il resto lo fanno le poche capre sparse per l’isola. 
Camminiamo circondati da bambini mentre ci avviamo verso la scuola. Dalla scuola (unica costruzione in mattoni, probabilmente donata da qualche progetto sociale) ci corrono incontro a centinaia. Il tragitto verso la scuola é un coro di “how are you” e “pencil please” che ci fanno sentire troppo in colpa e decidiamo di arrivare a pochi passi, ma di non entrare nella scuola stessa. Ritorniamo all’intento di questa parte di villaggio e incontriamo l’infermiere, che ci chiede, in un inglese molto stentato, se possiamo fargli avere delle medicine. Rimaniamo con lui qualche decina di minuti, cercando di dirgli quali medicine gli faremo avere e cosa servono. 
Rimaniamo intesi di fargli avere una lista con nome, a cosa serve e posologia e fargliela avere da Daniel, sperando gliela porti. 

Continuano a camminare in un misto di sabbia e argilla, tra buche fatte nel suolo per trattenere l’acqua piovana e asini. La nostra destinazione, abbastanza lontana, sono due cannoni montanti sull’isola dagli italiani, non sappiamo bene per cosa, ma immagino siano a lunga gittata per le navi nemiche. 
Il paesaggio é assurdo, sembra di essere nella savana, ma con due cannoni all’orizzonte. Non lo definirei bella, eppure Dohul ha un fascino pazzesco. Più in là l’isola diventa alberata, se ci si volta a est c’è il nulla, dietro di noi un villaggio di lamiera uscito dal nulla. L’unica costante, in tutte le direzioni (tranne una dato che l’isola è stretta e lunga) è il mare. 

Torno scrivendo, qualche resto di plastica qua e là denota la civiltà che avanza nella sua bruttezza, risaliamo in barca salutando i pochi bambini che ancora ci scrutano da lontano. 

In barca torniamo molto più piano del solito e ancora mi stupisco del turchese del mare. 
Mangiamo qualcosa e ci mettiamo tutti a leggere in attesa che passino le ore più calde. 
“Se il fato non ti fa ridere vuol dire che non hai capito la barzelletta”
Leggo a lungo, fin che non decido di fare un po’ di snorkeling. La barriera è interessante, l’attraversarla per andare verso il largo - data la bassa marea - rischioso. Purtroppo il mare è torbido e lo spettacolo di pesci che si inseguono non ha la visibilità sperata. Esco dall’acqua abbastanza in fretta, mi tolgo le pinne, la maschera, mi tolgo il costume che sempre metto sopra l’altro costume e - senza un vero perché - inizio una corsa di libertà, una corsa veloce. Sprofondo spesso nella sabbia umida, schivo i coralli morti a rive, sento qualche piccola punzecchiatura sul fondo dei piedi ma continuo, sono spinto da una forza strana, una voglia di sfogo fisico, di libertà. 
Arrivo a un punto sufficientemente lontano dalle tende e urlo, urlo di gusto, di libertà e gioia. 
L’isola a sud diventa più verde, alcuni gabbiani si alzano in volo minacciosi, mi urlano di allontanarmi e volano basso, probabilmente hanno dei cuccioli. La sabbia continua a esserci in spiaggia, ma verso il mare ci sono gli scogli. La sabbia sprofonda, i passi sono pesanti e corro più forte ancora. Arrivo agli antipodi dell’isola rispetto a dove abitiamo, qui i cespugli lasciano spazio a una spiaggia immacolata, un mare tra il celeste e il turchese, calmo e rassicurante. Rallento, la testa imperlata di sudore, mi volto e la sabbia finissima e immacolata non porta alcun segno, se non le tracce piccole dei paguri e le mie impronte pesanti. Sul lato destro, verso l’entroterra, ci sono alcuni agglomerati di alghe e li centinaia e centinaia di paguri si aggrovigliano risuonando rumorosi sopra il mio ansimare e sopra lo scrosciare leggero del mare. Mi volto nuovamente a guardare le mie impronte e appena mi volto un granchio mi taglia la strada veloce e sparisce nell’acqua. Da sinistra a destra vedo i colori freddi del mare caldo, sotto i miei piedi il bianco e l’ocra chiaro della sabbia, a destra qualche alga marrone scura e dei cespugli verdi brillanti. Urlo ancora, un urlo affannato e sguaiato, un urlo che sussurra “non importa il tono, non mi sentirà mai nessuno qui”. 

Proseguo mentre paguri e conchiglie aumentano, il sole si sta abbassando, aumento l’attenzione a dove metto i piedi, sprofondo un po’ di più, mi lascio sulla destra 5 o 6 barche colorate girate sottosopra che i pescatori lasciano qui non so perché. Raccolgo una bottiglia di plastica e una tanica rispettivamente mezza piena e vuota e continuo a correre. L’isola torna a essere familiare mentre arrivo alla parte che tutti abbiamo tacitamente fatto diventare la latrina e proseguo ancora, fino a intravedere le tende. Continuo alla punta più a nord, ribattezzata “punta ala” per la costante presenza di uccelli, al mio arrivo si alzano in uno spettacolare balletto sulla mia testa, ultimi metri. Arrivo, con un salto atterro sulle orme della mia partenza. Marco è in acqua, Paolo e Giovanni sono partiti a camminare, Daniel, seduto all’ombra a rilassarsi, mi applaude sorridente. 

Mi lavo e mi faccio raccontare qualcosa di più da Marco sulla sua malattia, della quale parla malvolentieri, si finisce rapidamente a parlare di viaggi e mi dice che l’anno scorso ha fatto il cammino di Santiago e 10 anni fa camminava con due bastoni. Il suo corpo è una cicatrice continua e in uno dei suoi viaggi è stato ricoverato in Namibia per un trauma cranico e gli hanno dato 16 punti in testa dopo un incidente d’auto. Non mi ispira particolare simpatia, ma non riesco a non rispettare uno che fa un viaggio come questo nonostante riesca a mala pena a salire la scaletta della barca. 

Mangiamo ancora pesce e riso, finiamo col solito tè e iniziamo a parlare di sanità pubblica, di come ogni persona non sia totalmente etero o totalmente omosessuale e di futuro. Vado a fare pipì nel mare e mi incanto a giocare col plancton, rientrato Paolo, che è medico, mi obbliga a curarmi un piccolo taglio da corallo sul piede. 

Più tardi accendo la torcia frontale per provare a leggere ancora un po’ ma vengo assalito dai moscerini. Decido di godermi un po’ il cielo stellato mentre mi lavo  i denti. Mente ammiro la cintura di Orione, una delle poche costellazioni che conosco, penso che gli astrologi dovevano avere davvero fantasia... sono le 21.00 passate da poco, mi trovo stanco e con la testa pesante. La sera ha meno vento del solito e la tenda è calda. Leggerò fino a addormentarmi. Leggo con la pila e mi convinco che stia piovigginando a causa di un continuo “tic” “tic” che sento sopra la testa. Quando decido di provare a dormire e metto via il libro vedo fuori dalla verandina della tenda e non c’è segno di pioggia, torno a puntare la lampada e quella che io credevo pioggia erano centinaia di moscerini che si lanciavano contro la tenda attirati dalla luce. 

Giorno 6 - 24 dicembre 
Mi sveglio che c’è una grossa palla rossa tra le nubi. Faccio un po’ si stretching rivolto al sole e inizio l’ultima giornata qui, domattina saremo di ritorno. 
Inizio ad avere bisogno di una doccia calda e dolce e - penso - certamente é la vigilia di Natale più strana che io abbia mai passato. 

Mangiamo il pane locale - squisito - preparato sul momento da Proemi per colazione e partiamo per un’isola non troppo lontana, facciamo ovviamente  snorkeling e vedo diverse conchiglie enormi e molto particolari, una - che sembrava rubata da sotto la Venere di Botticelli - era chiusa e sulla sommità aveva una specie di serpente marrone, giallo con vivaci chiazze verde acqua. Il mollusco si ritirava completamente all’interno appena percepiva pericolo e io le mie lunghe pinne blu lo eravamo. Mi sono scostato allora di pochi metri, ho incastrato le pinne tra la sabbia e sono rimasto a vedere lo spettacolo di questi due specie di serpenti che crescevano e crescevano, fino a mostrare una piccola fessura a forma di bocca, che lasciava ancor più cupo il mistero. Ero talmente affascinato da quello strano essere che - se non fosse per il mio rispetto assoluto per la natura - l’avrei preso a due braccia e l’avrei portato via con me. 

Più tardi siamo salpati sull’isola. Ogni isola delle Dahlak é particolare, unica, questa ha vegetazione fitta, cespugli alti come me e grandi alberi fino a tre o quattro metri che ospitano una grande varietà di uccelli. 
Torniamo alla nostra isola che il sole è alto, le nubi del mattino sono state spazzate via e la visibilità dei fondali è totale anche dalla barca. 

Arriviamo a “casa” e convengo con Giovanni e Paolo che questo posto, per stupirmi e lasciami a bocca aperta ancora dopo cinque giorni, deve essere veramente magnifico. Le nostre tende aggiungono due colori vivaci al mix incredibile autoctono e, mentre scrivo, guardo sorridere la nostra “segen 3”, boccola imbarcazione che solitamente viene usata per le escursioni di diving e che significa “struzzo” in eritreo. 

Questa giornata è molto simile a ieri e non mi dispiace il fatto che domattina si torni. Domani sera spero di avere un po’ di connessione per sapere che tutti stiano bene. 

Il pomeriggio scorre lento, per la maggior parte del tempo leggo quel capolavoro di libro che è Shantaram, pentendomi di noi averlo letto prima o in India. Mi sdraio un po all’ombra sulla sabbia fine e poi decido di fare un bagno e correre di nuovo. 
Mentre scrivo Marco parla di alcuni posti dov’è stato e un filo di invidia mi si ferma nelle palpebre. 

Mango un arancia - che qui sono gialle - e parto per la corsa intorno all’isola. La corsa é molto diversa da ieri, più studiata, premeditata e calma. Mi godo le differenze delle posizioni dei paguri, mi godo i piedi che sprofondano stanchi per l’ultima volta in questo pezzo di mondo strano e del quale non sapevo l’esistenza fino a un mese fa o poco più. La fronte mi si imperla di sudore, corro a un passo non eccessivo, con la conoscenza del percorso, con l’ora di partenza stampata in testa. 16.38. Ieri era stato un “ma si, corro” ed ero partito, oggi ho pensato alla corsa fin dal termine di quella di ieri. Non so quale sia stata più gradevole, ma vedo in questi due atteggiamenti me stesso in egual modo. Impulsivo e calcolatore, a seconda da dei giorni, dei minuti, degli attimi. Passo la zona dove il gabbiano ieri starnazzava e oggi sono in due; volano basso, gracchiano e si dirigono verso di me con ferocia, mi volano sempre più vicino fin che mi costringono a abbassare la testa e accelerare il passo, nonostante i piedi che sprofondano pesanti. Faccio tutto il giro e controllo l’orologio: 16.53, quindici minuti esatti. 

Mi fiondo in acqua a rinfrescarmi e poi prendo la saponetta e il rasoio e decido di radermi i capelli, o quelli che rimangono. Mi immergo con l’acqua calda e calma fino alle ginocchia e poi mi inginocchio. Metto la testa sott’acqua, con la sinistra tengo la saponetta e la passo ovunque, con la destra inizio a tagliare, prima mi rifilo la barba, che ormai sta ricrescendo e poi i capelli. Un po’ per il sapone e un po’ per la concertazione chiudo gli occhi. Mi trovo in un mondo nuovo, cullato dal mare ma ben saldo sulla sabbia fine, il sole che sta per tramontare che bussa alle mie palpebre e le mie mani che si muovono svelte, ricordo di un movimento fatto mille volte. Provo a immaginarmi davanti allo specchio di casa, passo e ripasso la sinistra per accertarmi di aver fatto un buon lavoro, come se cambiasse qualcosa e poi mi abbandono nell’acqua che inizia a tingersi di arancione. 

Cena della vigilia di Natale consiste in pesce e riso e a fine cena ci mangiamo fichi secchi e datteri tenuti apposta per l’occasione. 
Offriamo qualche birra a Daniel, Proemi e Rasheed e brindiamo al Natale. Poco dopo vedo Daniel che traffica e poi ci chiama. Ha preparato un piccolo falò e vuole che ci sediamo attorno a bere il tè. Mi avesse detto che potevo usare i pezzi di legno avrei passato la giornata intera a preparare questo falò, mia passione sfrenata. Lo accende barando, con un po’ di benzina, non è altissimo nè potentissimo, ma considerando di essere su un arcipelago praticamente senza alberi è molto buono. Ogni tanto arriva con dei cespugli secchi trovati in giro per ri-attizzare il fuoco. Mi perdo come sempre a fissare il giallo e l’arancione che si inseguono fino che le fiamme scompaiono e non rimane solo la brace del pezzo più grande. Rimane un ghepardo inferocito che corre veloce verso una testa di capra tre volte più grosso di lui. In quell’istante stacco i pensieri dal fuoco e li porto alle stelle. 

Due bagliori così diversi e così simili, nella vigilia di Natale, vestito con gli stessi pantaloncini da quattro giorni, mi incontrano per lunghi attimi prima di andare in acqua a giocare leggero col plancton. Un ultimo sguardo al rosso fuoco del falò prima di immergermi fino alla vita in acqua, dove il plancton si spezza? e gioca con me. Mi metto a zompettare veloce e piccole pulci verdi smeraldo si spargono ovunque attorno a me, mi sento uno di quei supereroi con le scintille alle gambe che corre velocissimo. Il plancton si incastra tra i peli delle mie gambe e mi segue col suo colore innaturale. Sorrido della natura, di questo gioco infantile, di me. 

Scherziamo sul fatto di aver fatto tardi, sono le 20.45 e ci stiamo lentamente preparando per andare a letto. Il fuoco, la brace, il cielo stellato, la sabbia sotto i piedi, il plancton, la salsedine ormai parte del mio corpo. 

Mentre mi lavo i denti torno a guardare il falò, il grosso pezzo è l’ultimo rimasto brulicante di fuoco, si é leggermente diviso e sembra in modo incredibile un drago di comodo che sputa fuoco dalla bocca. Nel fuoco ho sempre giocato a leggere presagi e ora non capisco se dovrei tornare o assolutamente non dovrei tornare in Indonesia. 

Finisco un capitolo, spengo, mi metto nella mia solita posizione per addormentarmi e sento un qualcosa tra il piede, probabilmente un moscerino, muovo rapido il piede per scacciarlo e sento delle gambe, troppe, che mi risalgono la gamba. Sbarro gli occhi, mi metto seduto e mi giro di scatto, prendo la torcia e provo a far luce. Non si sa come, nella tenda è entrato un granchietto grosso metà il mio pugno. Cerchiamo di catturarlo per farlo uscire, ma è rapido e impaurito. Alla fine riusciamo a farlo entrare in un piccolo sacco di plastica e a liberalo fuori dalla tenda. 

Giorno 7 - 25 dicembre

Oggi, Natale, sarà un giorno trasitorio, faremo colazione, sbaraccheremo tende e cucina, navigheremo fino a Massawa e poi prenderemo una macchina per salire ai 2400 metri di Asmara, dove finalmente faremo una doccia. 
Preparo rapido come sempre lo zaino e mentre gli altri sono ancora a dividere le loro cose in vari buste io sono già pronto. 

Andiamo a fare snorkeling a largo della nostra isola, il mare è calmo e piatto e caldo. Non abbiamo mai guardato intorno a noi in questi giorni, abbiamo sempre fatto altre isola al mattino. Causa bassa marea passo il reef non senza difficoltà, zigzagando e avendo come l’impressione di colpire la barriera in alcuni punti. Finalmente a largo inizio a esplorare lento. I pesci sono centinaia, i colori leggermente più sgargianti che negli altri posti, un paio di coralli sono meravigliosi, salgono ricchi di buchi e fessure fin quasi alla superficie dell’acqua e sono i più interessanti. Passo lento pesci che ormai ho imparato a conoscere, pur non sapendone il nome, spavento qualche banco per vederlo andare via veloce, scruto i ricci di mare e una cernia incredibilmente grande. 
Guardo verso riva, mi sono allontanato molto e ci eravamo detto di stare fuori un’ora, credo che il tempo sia arrivato. Faccio le ultime due bracciate pensando “bello, anche se non ho visto nulla di nuovo”; non ho tempo di finire questo pensiero che arriva il mio regalo di Natale. Vedo spuntare da sotto un grosso corallo un piccolo filo piatto bianco, sembra un osso di seppia più stretto e lungo, mentre mi avvicino - avendo il corallo di fronte a me - vedo questa cosa bianca diventare sempre più lunga e per un attimo penso possa essere plastica e invece, parzialmente nascosta dal corallo, a pochi metri da me, la coda finisce in un enorme pesce tondo, nero sulla superficie e bianco sotto (scoprirò di lì a poco vedendolo muovere). Mi blocco esterrefatto, metto la testa fuori dall’acqua per vedere se i Paolo e Giovanni siano a distanza utile per vedere lo spettacolo ma non ci sono. Fisso l’animale a lungo fin che, in un gesto che ricorda i treni a vapore, mette in azione i lembi del suo corpo e rapido fa qualche centimetro in retro prima di partire in avanti lento. Lo seguo, non so cosa sia, una manta? Una seppia gigante? Continuo per qualche metro il mio pedinare l’animale, interrompendo solo a tratti per guardare la posizione dei coralli intorno a me. Arrivati vicini a un grosso corallo a forma di fungo, si infila al di sotto e sparisce. 
Inizio a nuotare con felice foga verso il punto dove so che sono in grado di tornare a riva, sotto di me c’è solo sabbia e mi concedo qualche bracciata liberatoria, mentre il mio corpo scodinzola emozionato dall’incontro misuro mentalmente la distanza dai coralli, saranno tra i cinque e i dieci metri. Sto per fare un bracciata e ecco sotto di me prendere forma un altro pesce enorme, ha la coda tozza e “normale” per un pesce, qualunque cosa significhi, ma poi il corpo è romboidale smussato agli angoli e piatto. Mi blocco e mi incanto, la creatura (che sia questa una manta e quella di prima fosse altro?) si alza verso di me è quasi mi spaventa, prima di partire a razzo lasciandomi solo il ricordo delle sue squame grigie. 
Torno a riva in un baleno, abbiamo un piccolo libro sulla fauna locale e andrò a cercare di cosa si trattano queste sue meraviglie che la natura, oggi, mi ha concesso di vedere. Buon natale. 

Carichiamo gli zaini in barca e si parte, il mare è così piatto che sembra possibile camminarci sopra, come se stessimo navigando nel petrolio. Mi godo l’aria in faccia mentre torniamo a Massawa. 

Arriviamo a Massawa e - puntualissimo - arriva il nostro transfer per Asmara. Scopriamo che ci hanno rubato qualche cassa d’acqua ma faccio desistere Marco da far polemica. Carichiamo quel che rimane sul pulmino e partiamo; alla nostra destra costeggiamo la ferrovia ormai in disuso e assistiamo alla normalità di qui: carretti trainanti lenti da asini, con l’autista anziano vestito in abiti tipici di un bianco fin troppo candido considerando quanto sono sporco io. 
Asini e muli sono molti, gli anziani indossano tutti la stessa tunica con copricapo, mentre i più giovani hanno magliette da calcio lise o colori sgargianti nella ricerca di una modernità che stride col paesaggio. 
Poco dopo aver schivato una decina di pecore brucanti vedo un ragazzo giovane e con i capelli curati, che - in bicicletta - sfoggia una maglia di Ronaldo alla juve, decisamente nuova. 
La strada è sconnessa ma accettabile, mentre iniziamo a salire e il paesaggio diventa tutto color ocra e mattone un dromedario finge per due volte di voler attraversare la strada e poi desiste. La città man mano scopare portandosi via una bicicletta alla quale è stata tranciata la parte superiore e resa un triciclo atto a trasportare taniche di qualcosa, lasciando spazio all’asfalto e alla musica che piano esce dalla macchina. 

Saliamo l’altopiano a buona velocità, superando cammelli, carretti e camion, verso la sommità le nuvole piccole e solitarie si muovono rapide al nostro fianco disturbando l’azzurro perfetto del cielo, i colori, le terrazze, la ferrovia in disuso, le piccole costruzioni creano uno scenario pazzesco e unico. Difficile da descrivere senza vedere una fotografia, ma John guida troppo svelto e non riesco a immortalare nulla. Ho fatto molte fotografie in questi giorni, molte più di quante ne farei normalmente. Ho sempre considerato la fotografia l’attimo in cui perdi qualcosa più che l’attimo in cui la fermi in eterno, eppure in questi giorni spesso ho preso il telefono per scattare. 

Arriviamo in hotel, ci facciamo finalmente una doccia calda e dopo un po’ di relax partiamo per cenare in Asmara. 

Camminiamo nei vicoli freschi di Asmara fino a un ristorante suggerito da Marco. Le strade sono pulite e a tratti illuminate, camminiamo per un paio di chilometri lenti dato che Marco inizia a sentire dolore alle gambe e alla fine arriviamo in un locale molto carino dove mangiamo piatti tipici e scherziamo di gusto. La compagnia sta diventando solida. Beviamo un liquore locale a fine pasto e pensiamo a cosa potremmo fare qui la sera, c’è un bowling ma apre alle 22.00 e sono le 20.15... 

Giriamo tra le strade del centro, tantissimi eritrei sono in giro, ragazzi giovani, moltissime ragazze vestite all’occidentale e senza velo. Gli eritrei sono belli, bellissimi: nasi e lineamenti fini, corpi mediamente snelli e in forma. Entriamo in un internet point per far arrivare un messaggio alla compagna di Marco ma senza VPN praticamente tutti i siti sono inaccessibili; questo spiega perché dalla Wi-Fi dell’hotel possiamo soltanto usare facebook (ma non Messenger) Google e le email. Torniamo camminando lenti, nella sera fredda, ben coperti dai nostri piumini dopo aver fatto giorni in costume. 
Trascorro la serata a controllare su google vari dubbi dei quali ho discusso con Giovanni e Paolo, senza aver la possibilità di verificarli, infine cerco di scoprire che pesci fossero quelli visti ieri e lo scopro rapidamente, il primo era una manta, il secondo una grossa razza. 

Giorno 8 - 26 dicembre

L’ultimo giorno inizia lento come gli altri, ma in modo diverso. Vengo svegliato da centinaia di bambini che strillano canzoni all’unisono nella scuola dietro il nostro hotel. Mentre scrivo, probabilmente stanno ripetendo l’alfabeto. Abbiamo deciso di mangiare colazione, fare gli zaini con calma e partire per un tour di Asmara a piedi intorno alle 11.00.
Il mio zaino è già praticamente fatto, quindi scenderò a far colazione e continuerò a leggere. 
La notte a Asmara é fredda, ho dormito con due coperte di lana e, addormentandomi, ero convinto che stamattina avrei scritto di quanto sia bello dormire su un materasso, ma in realtà stamattina non é stato un mio pensiero.  
Le donne parlano piano, le ultime due cameriere faticavo a sentirle parlare, mi piacerebbe capire se sia timidezza o una qualche abitudine portata sul lavoro. 
La sala per colazione è ben apparecchiata in vecchio stile, tutto è pulito, stridendo col bagno della stanza zozzo e con la porta che non si chiude. Viaggiando appoggiati a un’agenzia é tutto certamente molto più caro di quello che dovrebbe, ma paghiamo quasi cinquanta euro per una doppia spoglia e senza confort, in linea teorica non mi importa di farmi fregare dalla gente dei paesi più poveri, cambia poco per me e potrebbe cambiare molto per loro, una piccola fregatura potrebbe far andare un bambino a scuola un giorno in più, far fare un pasto in più a qualcuno, ma  mi faccio mille domande su chi guadagna davvero da tutto questo e vorrei capire di più delle dinamiche che non possono essere comprese in pochi giorni. 

Spinto da queste mie stesse domande cerco qualche informazione in più e trovo un articolo che riporta “il popolo eritreo veste pulito, ma ha fame” - un articolo struggente che potrebbe riguardare ciascuna delle persone che ho visto camminare dritto e vestiti dignitosamente ieri sera per le vie di Asmara. Spinto anche da questo prendo tutte le magliette che ancora ho pulite, un sarii che avevo comprato chissà dove e le biro e mi incammino verso la vicina scuola. I bambini hanno tutti un grembiule blu acceso e mi salutano festanti. Entro e una ragazzina che sta pulendo i bagni mi chiede “director?” e mi accompagna da una suora. La religiosa sta sgridando un bambino per qualcosa, ma cambia rapida espressione e mi accoglie con un sorriso sincero; ci presentiamo e scambiamo quattro chiacchiere, mi risponde in un buon inglese e mi ringrazia per la piccola donazione. 
Esco passando tra le due file di bambini seduti che sventolano le mani a più non posso e alternano “ciao” a “hello”. 

Partiamo per un giro a Asmara, cerchiamo di camminare piano ma Marco arranca e ci chiede di andare avanti per i fatti nostri in modo da non faticare e non essere un peso. 
Partiamo per il giro con Giovanni e Paolo, con i quali si è creato un bell’affiatamento. Partiamo visitando un vecchio cinema con le sedie in legno lise, i muri di marmo di Carrara e dei bassorilievi spettacolari che però si vedono poco a cause del buio quasi assoluto della sala,  proseguiamo con la sinagoga, poi una splendida moschea nella quale veniamo minacciati di non entrare. Continuamo il nostro giro, Asmara non ha conosciuto influenze prima degli anni ‘20 e non ha conosciuto investimenti dopo la seconda guerra mondiale, sembra di fare un viaggio nel tempo nell’Italia fascista, con un sole caldo e l’aria freschissima. Proseguiamo e veniamo attirati da una panetteria, compriamo tre piccole pizze e una specie di bombolone, ci sediamo su in panchina vicino la piazza che la guida definisce “il più grosso obbrobrio di Asmara” e le mangiamo con gusto. Abbiamo pochi soldi locali rimasti e non vogliamo cambiarne altri, quindi contiamo tutto con cura; arriva un signore che in un discreto italiano ci fa vedere delle vecchie monete raffiguranti Mussolini e ci dice che valgono almeno 100 euro, ma lui ce le vende per 100 nafkta (circa 7 euro), poi scende a 10 nakta. Il nostro interesse per le monete è pari a zero e ci stiamo gustando le pizze, gli diciamo che non ci interessa e lui, quasi tra se e se, sospira un “che miseria”, pensiamo al nostro avere pochi soldi e scoppiamo a ridere. 

Quasi ogni edificio di Asmara presenta un particolare o un dettaglio degno di nota. Aiutandoci con una vecchia guida facciamo un tour consigliato a piedi, proseguiamo per il mercato, ma prima ci fermiamo a prendere un ottimo caffè e ritorniamo a prendere di nuovo delle pizze nella stessa panetteria, comprandone qualcuna in più per due ragazzi affamati appostati fuori.  
La guida ci fa poi visitare un mercato, dove provano a fregarci vendendoci arance a prezzi folli, poi uno strano palazzo pieno di oblò tipico del periodo razionalista e alcuni palazzi municipali. 
Arriviamo a un palazzo molto brutto, che la guida dichiara “unico” perché richiama tutti i motivi a zigzag, di fronte c’è un bowling, l’ultimo rimasto originale (probabilmente al mondo) e costruito per gli americani di base qui. L’ingresso è su un piccolo bar spoglio abbastanza normale, ma la sala giochi a fianco, gremita di gente, apre a un mondo di dettagli unici e meravigliosi. Ci sono tre piste da bowling, lise, vecchie e splendide, le palle ormai non sono quasi più tonde e nessuno sta giocando, altrimenti ci sarebbe un addetto a rialzare i birilli, ovviamente ancora manuali. Tutt’intorno, tra i biliardi occupati e alcuni schermi con la PlayStation, è un susseguirsi di chicche dalle ringhiere a forma di birilli, alla grande parete con vetri colorati in stile pop art, alle foto storiche di Asmara e dell’Eritrea antica a una vecchia macchina del caffè a dei porta bibite dell’epoca ricavati da birilli... un salto nel tempo ai gironi nostri. 
Uscendo vediamo due signore con il velo chiacchierare in un ottimo italiano nascoste dai loro veli e parliamo brevemente con loro. Sono sorelle, una abita a Roma e l’altra negli Stati Uniti, sono nate qui e tornano quasi tutti gli anni per le vacanze e ci dicono che nella direzione in cui stiamo andando non c’è nulla da vedere. Proseguiamo seguendo l’itinerario e nell’ora e mezza successiva ammiriamo molte ville con diversi stili e piccoli particolari, perdendoci un po’ per le vie fino a fermarci nuovamente in un bar. 
Torniamo in hotel, prendiamo le valigie e partiamo per l’aeroporto, arriviamo con largo anticipo per evitare problemi e perché - non avendo internet - non abbiamo fatto check-in. Mentre scrivo, l’aeroporto è ancora chiuso e lo schermo alla sua estremità dice che il nostro volo, previsto per le 00.10, partirà alle 12.00, con 11 ore e 50 minuti di ritardo. Partirà quando contavo di essere già a Cuneo. 

Scopriamo che l’aeroporto resterà chiuso fino alle 9.30 di domattina, fortunatamente c’è ancora un taxista che sta cercando di dormire nel suo taxi, lo sveglio e ci porta di nuovo in hotel, nessuno ci ha avvertito, nessuno ci ha detto nulla, non possiamo chiedere in nessun ufficio o chiamare nessuno, nulla. 
Dormiamo, colazione e torniamo in aeroporto, dove finalmente partiamo. L’altopiano dove poggia Asmara, al decollo è uno spettacolo, la cattedrale, la moschea, una specie di stadio e poi nuvole a nascondere le ripide discese in tutte le direzioni. Sotto di noi si apre un colosso di montagne complesse, collegate da strade rosse argilla e dove a ogni spiazzo c’è un gruppo di case; sembra quelle riproduzioni in miniatura dei luoghi, quelle increspature di carta pesta o plastica che sembrano sempre troppo finte, che guardi a lungo e ti vien voglia di toccarle. 
Atterriamo a Istambul, per uno scalo di poco più di due ore e poi a casa. 

giovedì 21 febbraio 2013

11 febbraio - frane e zip line


Il programma per il secondo giorno dice: trasporto fino a Santa Teresa - un'ora di viaggio - dove incontreremo la nostra nuova guida (tale Jimmy), zip line di mattina, pranzo, relax e poi due ore di cammino facile e piano fino a raggiungere Aqua Caliente, città ai piedi del Machu Picchu.

Partiamo col bus per una strada stretta, a rischio frane, che da un lato ha la montagna e dall'altra un parapetto di centinaia di metri. Ashley e Elle fanno praticamente tutto il tragitto con gli occhi chiusi e - attraversando un ponte di legno semi-inondato sospeso a decine di metri su un fiume in piena, li chiudo anche io. Scopriamo poi che questa strada è statisticamente più pericolosa della death road boliviana, solamente meno famosa.
Quando siamo a cinque minuti (peruviani) di macchina da Santa Teresa, vediamo di fronte a noi una frana che ha colpito un camion carico di merci. Il camion è in bilico tra la strada e il precipizio, frenato - per sua fortuna - da alcune piante e alcune rocce messe a protezione a bordo strada.
Il nostro autista ci dice allora di proseguire a piedi - ovviamente soli - e di fare attenzione, "in venti minuti sarete a Santa Teresa". Zaino in spalla e camminiamo, con una vista oggettivamente straordinaria a fondo valle di un fiume in piena, rabbioso e feroce; mentre passeggiamo chiacchierando per Santa Teresa scopriamo presto che le frane non vengono mai da sole. Attraversiamo una quantità infinita di frane che, in molti posti, ci fanno camminare nel fango fin sopra il ginocchio e decidiamo di farlo uno per volta, in modo da permettere agli altri di stare indietro e urlare se ci sono sassi che cadono (cosa che accade molto più di quanto avremmo voluto). A un certo punto arriviamo in una zona vicina a una cascata e qui la frana è enorme e ancora attiva, rocce grandi e piccole cadono in continuazione, ma decidiamo di provare a passare mentre - nel frattempo - dall'altro lato è arrivata una grossa draga che sta ripulendo la strada. Passiamo con cautela la zona, riuscendo a evitare i sassi cadenti, ma arrivati quasi alla fine, l'autista della draga e uno dei suoi colleghi ci dicono di tornare indietro e aspettare, che è troppo pericoloso. 
Obbediamo e attendiamo per oltre un'ora e mezza che la strada venga ripulita. 
Dopo l'attesa, convinti che dall'altra parte non ci sia più nessuno ad aspettarci e iniziando a pensare a un modo per raggiungere Aqua Caliente per i fatti nostri, attraversiamo e un peruviano con un sorriso enorme ci chiede se siamo i ragazzi che erano con papà Ricky, che il suo nome è Jimmy e che non abbiamo idea di quanto sia felice di vederci vivi.

La gioia è decisamente ricambiata, Jimmy ci ha aspettati dalla mattina presto e ci da un'altra ottima notizia, siamo ancora in tempo per lo zip line. Lo zip line che stiamo per affrontare è uno dei più alti del Sud America, faremo sei linee, la più lunga di circa 500 metri, la più alta a 200 metri dal suolo, con una velocità massima di circa 40 Km/h. Saliamo a piedi per un piccolo e impervio sentiero fino a raggiungere la prima postazione dove mi sto già cacando sotto (per chi non lo sapesse, soffro di vertigini). Buona notizia, sono in compagnia, anche Elle si caca sotto.
Affronto la prima discesa con una delle guide - che se moriamo almeno siamo in due e si sa, mal comune...
Dopo la prima discesa mi lascio andare e faccio la seconda solo, mentre nella terza, la più alta, veloce e lunga, faccio superman: mi viene cambiata l'imbragatura e vengo lanciato con  una guida che mi regge le gambe (come da video).
Dopo aver scalato un pezzo di montagna a strapiombo (messi in sicurezza con l'imbragatura) partiamo per la quarta linea, dove ormai mi sento sicuro, lascio andare le mani dalla presa in sicurezza, mi giro, faccio lo scemo e non mi accorgo che sono troppo vicino alla fine; cerco allora di tornare in posizione in fretta e sfrego per bene un braccio nudo sul filo metallico. Dopo le altre due linee torniamo alla base, pranziamo e raggiungiamo la fine della strada, dove proseguiamo a piedi per circa due ore e mezzo, sui binari del treno, fino a raggiungere in serata Aqua Caliente.

Dopo un massaggio "Inca", che significa "ti massaggio come cacchio voglio" andiamo a dormire presto e ci prepariamo per la sveglia alle 4.00 e gli scalini di una delle meraviglie del mondo.

10 febbraio - downhill? No uphill


Il primo giorno del programma dice: trasporto in bus fino a 4400 metri, downhill per alcune ore in mountain bike, arrivo e pranzo a Santa Margherita, trasferimento in bus a Santa Teresa, notte a Santa Teresa.

Essendo la stagione delle piogge, ci avevano avvisato sulla possibilità (remota) di frane; la notte precedente, però, le piogge sono state molto intense e - mentre saliamo in bus - ci dicono che devono controllare un paio di ponti per vedere se sono resistenti abbastanza. Mentre ci spiegano questo "problemino", foriamo e ci fermiamo a cambiare una gomma.
Il paesaggio mentre cambiamo la gomma è tra lo splendore delle montagne e l'odio di peruviani che maltrattano gli asini sovraccarichi di patate.
Mentre saliamo vediamo una preoccupante colonna di auto ferme, la sorpassiamo e ci troviamo di fronte a una grossa frana che blocca la strada.
A questo punto vinco il premio per l'idea più stupida dell'anno e dico "beh, ma perchè non arriviamo fino in cima in bici?"; la guida non vorrebbe ci dice che sarà dura e che ci vorranno almeno due ore per arrivare fino in cima e che - se anche solo uno si sente male o non se la sente - si torna tutti indietro. Ok. Scaliamo una piccola montagna per sorpassare la frana e, con la gente del luogo che ci dice che siamo completamente pazzi, partiamo.
Da subito è chiaro che alcuni non ce la faranno mai e che - con mio immenso stupore - sono uno dei più in forma della comitiva. Elle e un'altra ragazza vengono presto caricate da un pick-up e portate in cima ad aspettarci. La strada è un tormento, l'altitudine - oltre 4000 metri - ti spacca i polmoni, la strada ti spacca le gambe; inizialmente il gruppo è compatto e ci si aspetta, ma poi la guida - papà Ricky - ci dice che se ce la sentiamo possiamo andare da soli.
Dopo 3 ore infinite sono il primo ad arrivare in cima, nel mezzo del nulla, dove c'è una temperatura di pochi gradi e Elle e l'altra ragazza sono chiuse in una chiesa a cercare di scaldarsi con le candele. Circa mezzora dopo me arriva Ashley e - dopo di lei - nessuno. 
Ormai è troppo tardi per fare downhill e la guida riesce a trovarci un passaggio fino a Santa Margherita. Arriviamo a Santa Margherita e iniziamo a mangiare "pranzo" che sono le 18.30, degli altri nessuna traccia.
Dopo un sacco di tempo arrivano gli altri, stremati, fradici e infreddoliti; scopriamo così che il nostro bus aveva deciso di abbandonarci e tornare a Cusco e che nessuno è riuscito ad arrivare sulla cima. Fortunatamente la guida è riuscita a pagare un pick-up della polizia che ha caricato tutti nel retro passando dai pochi gradi della cima alla pioggia torrenziale più in basso. 
Essendo troppo tardi, buio e pieno di frane, ci fermeremo a Santa Margherita per la notte e partiremo la mattina presto per Santa Teresa.
Serata giocando a monopoli in versione semi-alcolica, ridendo come non mai e guardando un video girato da Joshua, Aldo e Dean, dove - un po' scherzando e un po' seriamente - salutavano la famiglia e gli amici, convinti di morire di freddo e fame sulla montagna.

9 febbraio - Rafting


Sveglia presto e partiamo tutti tranne Elle (che deve andare in aeroporto a prendere un suo amico che sta arrivando) a fare Rafting. 
Acqua gelata, livello delle rapide: tra il 3,5 e il 4+, livello del paesaggio e della compagnia: indescrivibili.

Joshua in Bolivia ha comprato una maschera colorata che abbiamo simpaticamente ribattezzato "maschera per lo stupro", per stuprare con colori e sorrisi. In vista del machu picchu decidiamo allora di comprarne una a testa, compreso Aldo, l'amico di Elle appena arrivato. In serata decidiamo di fare l'Inca jungle trek per arrivare, dopo tre giorni, al grande machu.